Progetto Commentari

Per qualche post, pubblicherò una selezione dei commentari di Debord. Pubblicherò per cronologia e sceglierò quelli che mi sembrano più attinenti.

I

Questi Commentari saranno certamente conosciuti subito da cinquanta o sessanta persone, molte per i giorni che viviamo e quando si affrontano problemi così gravi, ma anche perché ho la fama, in certi ambienti, di essere un intenditore. Va anche osservato che, la metà o pressappoco di questa élite interessata è composta da persone impegnate a conservare il sistema di dominio spettacolare, mentre l’altra metà si ostina a combatterlo. Dovendo tener conto di lettori molto attenti e diversamente influenti, non posso evidentemente parlare in piena libertà. Soprattutto devo stare attento a non istruire troppo chicchessia.

Questi tempi disgraziati mi costringono quindi a scrivere, ancora una volta, in modo nuovo. Alcuni elementi saranno omessi volontariamente, e il piano dovrà restare piuttosto indecifrabile. Ci potrà essere, come la firma stessa di questa epoca, qualche tranello. Il senso complessivo può delinearsi a condizione di intercalare qua e là molte altre pagine, così come sono stati aggiunti articoli segreti al contenuto reso pubblico dei trattati internazionali e allo stesso modo con cui degli agenti chimici rivelano un aspetto sconosciuto delle loro proprietà solo quando vengono associati ad altri elementi. In questo breve lavoro ci saranno d’altronde fin troppe cose, ahimè, facili da capire.

Festa della Repubblica

Per concludere su questo punto dico una cosa sola: colleghi democristiani, colleghi repubblicani, non risolvete col colpo di una maggioranza, che oggi avete, ma che domani potreste non avere più, una questione così grave di organizzazione dello Stato italiano. E soprattutto in questo momento – ha ragione l’onorevole Nitti – in cui già sono attive forze centrifughe, che non riusciamo a controllare oggi completamente e che forse non potremmo più controllare in nessun modo domani, se ci mettessimo su una strada sbagliata di organizzazione dello Stato. Stiamo attenti a quello che facciamo.
Vengo all’ultima delle esigenze, che ho detto dover stare alla base del nostro lavoro costituzionale: l’esigenza di progresso sociale e di rinnovamento delle classi dirigenti.
Qui si presentano differenti temi, e in particolare quello della formulazione dei nuovi cosiddetti diritti sociali.
Siamo d’accordo, in generale, sulle formulazioni date; abbiamo però parecchie osservazioni da fare. Questo è infatti il punto, dove quel tipo deteriore di compromesso, onorevole Ruini, di cui ho parlato all’inizio della mia esposizione, ha giocato ampiamente, sostituendosi una parola all’altra, attenuandosi questa o quella affermazione, in modo tale da fare sparire del tutto i lineamenti originali del progetto che la prima sottocommissione aveva elaborato.
Nel corso della discussione in questa assemblea, poi, a un certo momento si era stabilito un fronte quasi generale degli oratori contro l’inserimento nella Carta costituzionale della affermazione di questi diritti. Tutti – strano a dirsi – sembravano essere diventati staliniani3. Se si trattasse di una convinzione seria e sincera, non potrei che rallegrarmi; ma non è così: si trattava unicamente di trovare nella citazione del testo corrispondente a una situazione ben diversa dalla nostra un argomento per respingere, oppure per togliere dal testo costituzionale vero e proprio, l’affermazione dei nuovi diritti sociali, per inserirli soltanto – in modo ancora più limitato e modesto di quanto non sia oggi – in un preambolo. In modo molto espressivo diceva uno dei colleghi che mi hanno preceduto che si trattava di confinarla nel preambolo: il confino è infatti luogo dove si mandano le persone non desiderate. […]

Per concludere su questo punto dico una cosa sola: colleghi democristiani, colleghi repubblicani, non risolvete col colpo di una maggioranza, che oggi avete, ma che domani potreste non avere più, una questione così grave di organizzazione dello Stato italiano. E soprattutto in questo momento – ha ragione l’onorevole Nitti – in cui già sono attive forze centrifughe, che non riusciamo a controllare oggi completamente e che forse non potremmo più controllare in nessun modo domani, se ci mettessimo su una strada sbagliata di organizzazione dello Stato. Stiamo attenti a quello che facciamo.
Vengo all’ultima delle esigenze, che ho detto dover stare alla base del nostro lavoro costituzionale: l’esigenza di progresso sociale e di rinnovamento delle classi dirigenti.
Qui si presentano differenti temi, e in particolare quello della formulazione dei nuovi cosiddetti diritti sociali.
Siamo d’accordo, in generale, sulle formulazioni date; abbiamo però parecchie osservazioni da fare. Questo è infatti il punto, dove quel tipo deteriore di compromesso, onorevole Ruini, di cui ho parlato all’inizio della mia esposizione, ha giocato ampiamente, sostituendosi una parola all’altra, attenuandosi questa o quella affermazione, in modo tale da fare sparire del tutto i lineamenti originali del progetto che la prima sottocommissione aveva elaborato.
Nel corso della discussione in questa assemblea, poi, a un certo momento si era stabilito un fronte quasi generale degli oratori contro l’inserimento nella Carta costituzionale della affermazione di questi diritti. Tutti – strano a dirsi – sembravano essere diventati staliniani3. Se si trattasse di una convinzione seria e sincera, non potrei che rallegrarmi; ma non è così: si trattava unicamente di trovare nella citazione del testo corrispondente a una situazione ben diversa dalla nostra un argomento per respingere, oppure per togliere dal testo costituzionale vero e proprio, l’affermazione dei nuovi diritti sociali, per inserirli soltanto – in modo ancora più limitato e modesto di quanto non sia oggi – in un preambolo. In modo molto espressivo diceva uno dei colleghi che mi hanno preceduto che si trattava di confinarla nel preambolo: il confino è infatti luogo dove si mandano le persone non desiderate. […]

Noi siamo qui, prima di tutto, noi della grande maggioranza dell’assemblea, gli esponenti di un grande movimento nazionale liberatore, movimento il quale trae i succhi della propria esistenza dalle migliori tradizioni della vita e della storia del nostro paese: le tradizioni liberali e democratiche. Queste tradizioni il fascismo ha voluto negarle, ha cercato di distruggerle; non vi è riuscito ed è crollato nel baratro, nel quale purtroppo ha trascinato anche noi.
Ma noi ci sentiamo qui, noi comunisti, voi socialisti e anche voi, colleghi della Democrazia cristiana, noi tutti dobbiamo sentirci qui anche gli esponenti di qualche altra cosa: gli esponenti di quelle masse lavoratrici di operai, di braccianti, di contadini, di impiegati, di uomini del popolo, di uomini che vivono soltanto del proprio lavoro, e che da decenni sono attive nella lotta per la loro emancipazione. Queste masse si sono organizzate, hanno combattuto e combattono non soltanto per migliorare la propria esistenza giorno per giorno, attraverso le loro agitazioni e i movimenti loro economici e politici, ma anche e soprattutto per gettare le fondamenta di un nuovo ordinamento sociale, di una società nazionale rinnovata, governata dal lavoro secondo i propri interessi e secondo la propria profonda moralità, secondo quei princìpi di libertà, di uguaglianza, di giustizia sociale, che sono l’essenza dell’ideologia delle classi lavoratrici, in tutte le forme in cui essa può manifestarsi.
Onorevole presidente! Onorevoli colleghi! Il nostro gruppo interverrà attivamente nel dibattito costituzionale, per sostenere che nella maggior misura possibile la nuova Carta costituzionale della Repubblica italiana corrisponda a questi princìpi; corrisponda cioè a quelle che sono le aspirazioni della grande maggioranza del popolo italiano, aspirazioni che esprimono la più profonda, la più urgente esigenza della nostra vita nazionale in questo momento.

Uomini o buoi? (da un libello su Marx a cura di Mario Cassa, edito da Nuove Edizioni Operaie per la collana Quaderni Sapere)

Ma intanto è già subito chiara, evidente, la struttura fondamentale del feno­meno umano. L’uomo è il luogo nel quale si costituiscono e prendono forma i signi­ficati della storia; è la forza sociale originaria che determina giorno per giorno la vittoria o la rovina dei significati generati nel processo storico. E dunque la storia è scientifica perché in essa si decide di significati umani, di opere della ragione umana; ed è autonoma – (nel senso kantiano) – libera da ogni determinismo, perché non esiste scienza incondizionata, assoluta, più forte dell’originaria ragione pratica che si genera e sviluppa nel luogo umano. La vittoria o la rovina dei signi­ficati – delle classi che generano e sviluppano questi significati – è tutta nelle mani degli uomini stessi e della loro capacità di operare scientificamente. Che il sale dia sapore o diventi insipido, che il cammino umano acquisti significati sempre più ricchi o si spenga nell’insignificanza, questa è l’alternativa – la scommessa – esistenziale originaria. Essa riguarda innanzitutto la storia sociale, ma riguarda poi capillarmente ogni storia individuale; e quella quindi dello stesso Marx.
Uomini o buoi? « Ho dovuto utilizzare – scriveva Marx a Sigfrid Mayer nel 1867 – ogni attimo in cui potessi lavorare per portare a termine la mia opera, cui ho sacrificato salute benessere e famiglia… Io mi rido dei cosiddetti ‘uomini pratici’ e del loro buon senso. Se uno volesse essere un bue potrebbe naturalmente girare le spalle alle sofferenze dell’umanità e badare solo alla sua pelle. Ma io mi sarei considerato davvero un ‘impratico’ se fossi crepato senza portare a termine completamente il mio libro, almeno in manoscritto».

ZIZEC – Inattualità

Quando Mao parla delle «contraddizioni», usa il termine nel senso semplice di lotta degli opposti, di antagonismi sociali e naturali, non nel senso prettamente dialettico articolato da Hegel. La teoria maoista delle contraddizioni può essere riassunta in quattro punti. Per prima cosa, una contraddizione specifica è quanto definisce principalmente una cosa, rendendola quel che è: non è un errore, uno sbaglio, una qualche anomalia, ma, per un verso, proprio la caratteristica che tiene insieme la cosa – se questa contraddizione svanisce, la cosa perde la propria identità. Un classico esempio marxista: finora, nel corso della storia, la «contraddizione» primaria che definiva ogni società era la lotta di classe. Il secondo punto: una contraddizione non è mai isolata, dipende da una o più contraddizioni. Ecco l’esempio a cui ricorre lo stesso Mao: in una società capitalista, la contraddizione tra il proletariato e la borghesia è accompagnata da contraddizioni «secondarie», come quella fra gli imperialisti e le loro colonie. Terzo, mentre questa contraddizione secondaria dipende dalla prima (le colonie esistono solo nel capitalismo), la contraddizione principale non è sempre quella che domina: le contraddizioni possono scambiarsi l’ordine di importanza. Ad esempio, quando un Paese viene occupato, è la classe dirigente che di solito viene corrotta affinché collabori con gli aggressori per mantenere la sua condizione privilegiata, sicché combattere gli invasori diventa la priorità. Lo stesso vale per la lotta contro il razzismo: in uno stato di tensione razziale e sfruttamento, l’unico modo efficace per battersi a favore della classe operaia è concentrarsi sulla lotta contro il razzismo (per questo motivo ogni appello alla classe operaia dei bianchi, tipico del populismo della Alt-right, tradisce la lotta di classe). Infine il quarto punto: una contraddizione principale può anche cambiare: si può sostenere che oggi, forse, la lotta ambientalista designa la «contraddizione principale» della nostra società, poiché affronta la minaccia alla sopravvivenza collettiva della stessa umanità. Si può naturalmente obiettare che la «contraddizione principale» resta l’antagonismo del sistema capitalista globale, poiché i problemi ecologici sono il risultato dello sfruttamento eccessivo delle risorse naturali determinato dalla sete di profitto del capitalismo. Tuttavia, è discutibile se si possa ridurre tanto facilmente il disastro ecologico a un effetto dell’espansione capitalista – vi furono catastrofi ecologiche legate all’azione dell’uomo prima del capitalismo, e non c’è ragione per cui una prospera società post-capitalista non dovrebbe trovarsi di fronte allo stesso vicolo cieco.
Ricapitolando, per quanto si abbia sempre una contraddizione principale, le contraddizioni possono scambiarsi l’ordine di importanza. Pertanto, quando abbiamo a che fare con una serie complessa di contraddizioni, dovremmo individuare quella superiore, ma anche ricordare che nessuna contraddizione è statica – con il tempo, mutano l’una nell’altra. Questa molteplicità di contraddizioni non è solo un fatto empirico contingente; definisce proprio il concetto di una (singola) contraddizione: ciascuna dipende dall’esistenza di «almeno una» (altra contraddizione), la sua «vita» risiede nel modo di interagire con le altre contraddizioni. Se una contraddizione stesse da sola, non sarebbe una «contraddizione» (lotta degli opposti) ma un’opposizione stabile. La «lotta di classe» consiste nel modo in cui sovradetermina i rapporti tra i sessi, lo scontro con la natura nel processo di produzione, le tensioni fra razze e culture differenti…
Per quanto possano sembrare obsolete e irrimediabilmente sorpassate, queste elucubrazioni oggi acquisiscono un nuovo valore. Il mio primo argomento «maoista» è che, per assumere un atteggiamento corretto nell’ambito delle lotte attuali, si dovrebbe situare ciascuna lotta nell’interazione complessa con le altre. A questo proposito, un principio importante è che, contrariamente alla moda corrente, dovremmo attenerci alle forme di opposizione «binarie» e tradurre ogni manifestazione di posizioni multiple in una combinazione di opposti «binari». Oggi, non abbiamo le tre posizioni principali (l’egemonia dei moderati del centro-sinistra, il populismo di destra, e la nuova sinistra) ma ci ritroviamo con due antagonismi – il populismo di destra contro l’establishment moderato del centro-sinistra – e insieme tutti e due (le due facce dell’ordine capitalista esistente) affrontano la sfida lanciata dalla sinistra. […]

Ma basta con i casi specifici – le cose si fanno più complesse se consideriamo la «contraddizione» fra la Alt-right che discende la china della volgarità razzista/sessuale e il rigido moralismo prescrittivo del politicamente corretto. È determinante, dal punto di vista della battaglia progressista per l’emancipazione, non accettare questa «contraddizione» come primaria, ma dipanarne gli echi dislocati e distorti della lotta di classe. Come nell’ideologia fascista, la figura del Nemico creata dal populismo di destra (una mescolanza di élite finanziarie e immigrati invasori) combina entrambe le estremità della gerarchia sociale, offuscando la lotta di classe; al capo opposto, e in modo quasi simmetrico, l’antirazzismo e l’antisessimo del politicamente corretto celano a malapena il loro bersaglio autentico: il razzismo e il sessismo della classe operaia bianca, contribuendo così a neutralizzare la lotta di classe. Ecco perché è errato definire «marxismo culturale» l’atteggiamento politicamente corretto: il politicamente corretto, con tutto lo pseudo-radicalismo che lo contraddistingue, è, al contrario, l’ultimo baluardo della «borghesia» progressista moderata contro l’idea marxista, nel tentativo di offuscare/dislocare la lotta di classe come «contraddizione principale».
Le cose si complicano se consideriamo la lotta per i diritti umani universali. A questo riguardo, c’è una «contraddizione» fra i fautori di tali diritti e chi invece ammonisce che, presi nella versione classica, i diritti umani universali non sono affatto universali ma privilegiano implicitamente i valori dell’Occidente (l’individuo ha la precedenza sulla collettività ecc.), e pertanto rappresentano una forma di neocolonialismo ideologico – non meraviglia che il riferimento ai diritti umani sia servito a giustificare numerosi interventi armati, dall’Iraq alla Libia. I sostenitori dei diritti umani universali ribattono che, rifiutandoli, si finisce spesso per giustificare forme locali di governo autoritario e la repressione come elementi di uno stile di vita particolare. Come decidere al riguardo? Un compromesso a metà strada non è sufficiente; si dovrebbe accordare la preferenza ai diritti umani universali per una ragione ben precisa: una dimensione di universalità deve servire a rendere possibile la coesistenza di molteplici stili di vita, e il concetto occidentale di universalità dei diritti umani racchiude la dimensione autocritica che rende visibile i propri limiti. Quando il classico concetto occidentale di diritti umani universali viene criticato per i pregiudizi specifici che comporta, tale critica deve richiamarsi a una qualche concezione dell’universalità più autentica, che ci permetta di scorgere la distorsione insita in una falsa universalità. Ma una qualche forma di universalità c’è sempre, persino una modesta visione della coesistenza di modi di vita differenti e in definitiva incompatibili deve fondarsi su di essa. Insomma, significa che la «contraddizione principale» non è da cercare nella tensione (nelle tensioni) fra diversi modi di vita, ma è la «contraddizione» che alligna in ciascuno stile di vita (nella «cultura», nell’organizzazione della sua jouissance) tra la sua particolarità e la pretesa di universalità – per usare un tecnicismo, ciascuno stile di vita particolare è preso per definizione in una «contraddizione pragmatica», la pretesa di validità viene minata non dalla presenza di altri modi di vita ma dalla sua propria incoerenza. […]

I superstiti della sinistra radicale rispondano con prontezza a questa domanda: la socialdemocrazia sta sparendo proprio perché ha adottato politiche economiche neoliberiste, allora la soluzione è… quale? Ecco dove comincia il problema. La sinistra radicale non ha un programma alternativo percorribile, e la scomparsa della socialdemocrazia europea è un processo più complesso. Anzitutto, andrebbero osservati i recenti successi elettorali in Finlandia, Slovacchia, Danimarca e Spagna. In secondo luogo, occorre notare che, per i criteri europei, i «socialisti democratici» statunitensi alla Bernie Sanders non sono estremisti ma modesti socialdemocratici. Nel corso dei decenni precedenti, la posizione tipica della sinistra radicale rispetto alla socialdemocrazia era di sprezzante diffidenza: ma quando la socialdemocrazia resta l’unica opzione di sinistra, dovremmo sostenerla, pur sapendo che alla fine fallirà – questa disfatta sarà un’importante esperienza istruttiva per la gente. Oggi, tuttavia, la socialdemocrazia di vecchio stampo viene sempre più ritenuta una minaccia dal sistema: le sue istanze tradizionali non sono più accettabili. Questa nuova situazione richiede una nuova strategia. Da quanto detto, ecco quale lezione può trarre la sinistra: abbandoni il sogno di una grande mobilitazione popolare e si concentri sui cambiamenti nella vita quotidiana. Il vero successo di una «rivoluzione» può essere misurato soltanto l’indomani, quando le cose tornano alla normalità. Come viene percepito il cambiamento nella vita quotidiana delle persone comuni?

Gianfranco Canali – Resistenza umbra

La complessiva azione partigiana è però costretta a misurarsi con la situazione, difficile e pericolosa, determinata da un’ulteriore svolta draconiana impressa alla repressione della guerriglia dal feldmaresciallo Kesselring con il famigerato ordine del 17 giugno 1944, una vera e propria legittimazione di ogni forma di arbitrio commesso dai comandanti dei reparti nella conduzione della «lotta alle bande». Infatti i durissimi effetti dì questa svolta non tardano a manifestarsi nel territorio umbro occupato. Misure di repressione terroristiche sono sempre più indirizzate, in maniera indiscriminata, contro la popolazione civile. Il lento percorso di ripiegamento delle truppe tedesche attraverso l’Umbria settentrionale è contrappuntato da episodi cruenti di rappresaglia. I primi sono tra i peggiori. A Gubbio, il 20 giugno, alcuni gappisti uccidono un ufficiale medico e ne feriscono un secondo. Due giorni dopo scatta la «misura di ritorsione»: vengono fucilati quaranta civili inermi, tra i quali due donne. A Serra Partucci, il 24, per rappresaglia contro il ferimento di un soldato tedesco sono passati per le armi cinque civili. Il 27, nei pressi di Petrelle, per «vendicare» due soldati tedeschi viene fatta saltare una casa nella quale sono stati rinchiusi dieci uomini del posto. Nella notte tra il 27 e il 28 giugno, a Penetola, per sospetta connivenza con i partigiani, i componenti di tre nuclei familiari sono rinchiusi in una casa, che poi viene data alle fiamme. A quanti tentano di uscire si riserva una raffica di mitra. Il bilancio di questa spietata esecuzione è di dodici morti, tra essi vi sono donne e bambini.

Si chiude cosi – con questa scia di sangue che avrà una drammatica continuazione per tutta l’estate nell’Appennino tosco-emiliano – il periodo dell’occupazione tedesca nella regione. I diversi conteggi effettuati per dare una misura numerica delle forze impegnate nella resistenza in Umbria sembrano convergere approssimativamente in una cifra di oltre 43 00 unità per quanto riguarda i partigiani e di circa 2000 unità per quanto riguarda i patrioti, facendo così ammontare il numero totale dei «mobilitati» a una cifra superiore alle 6300 unità.
Merita, infine, di essere menzionata la scelta ulteriore compiuta da alcune centinaia di partigiani umbri, e cioè quella di continuare a combattere tedeschi e fascisti arruolandosi volontari, tra la fine del ’44 e i primi mesi del ’45, nei gruppi di combattimento del ricostituito esercito italiano, in particolare nel Cremona. Questi partigiani, provenienti per lo più dalle città dove più forte era stato il movimento resistenziale (Perugia, Terni, Foligno, Città di Castello, Spello, Umbertide), portano nella nuova esperienza militare gli ideali di libertà e di antiautoritarismo che erano stati alla base della loro precedente scelta. La guerra di liberazione nei reparti regolari dell’esercito viene da essi vissuta come un vero e proprio prolungamento della lotta partigiana.

IL MALE del 15-11-78

L’oscenità dilaga: IL PERUGIA è PRIMO IN CLASSIFICA!

Lettera di Bartolomei al Procuratore

Egregio Prucuratore Generale a seguito le comunico quanto segue.

Avendo io posto le mani nella cartella di mia figlia per accertarmi che essa non si recasse a ascuola portando seco sostanze stupefacenti o simili orrori, ho rinvenuto una copia di un libro così laido, osceno e ributtante, nel contenuto e nel linguaggio, tale da turbare e indurre in rovina non solo le giovani menti cui è destinato (è infatti, schifo e vergogna per i responsabili, un testo scolastico), ma anche gli insegnanti più retti e probi, seppure ancora ne esistono.

Sotto il titolo “Antologia della poesia italiana moderna” si nasconde infatti la più sfrontata e volgare sfilata dei più squallidi e abietti prodotti delle menti marce e malate, dei più depravati e amorali pornografi del nostro paese, che ben vorrebbero mascherare la loro attività nefanda sotto il comodo paravento della poesia.

Si inizia con una poesia di un tale Carducci, che inizia testualmente “L’albero cui tendevi la pargoletta mano” in cui il “poeta” illustra evidentemente le pratiche degenerate che egli imponeva ai suoi allievi per ottenere la sufficienza in italiano.

E quale fosse l’indottrinamento ben si vede dall’opera di tale Pascoliche fu appunto suo allievo. Questi non rispettava nemmeno il padre morto, descrivendo laidamente, il rapporto dello scomparso con una focosa giovane di facili costumi (Cavallina Storna), rivelando con i versi “Lo so, lo so, che tu l’amavi forte / con lui c’eri tu sola alla sua morte”, come il genitore non abbia resistito al furore erotico della Cavallina e sia rimasto secoo nel talamo adulterino in modo certo scandaloso e indecoroso per un padre di famiglia.

Proseguendo si incontra un certo Foscolo autore di un ode chiamata ” A Zante” in cui egli descrive il suo sordido trasporto omosessuale per lo Zante in questione, certo un altro “poeta”.

Ma non finisce qui.

Più avanti ci si imbatte in tale Leopardi che titola una sua poesia “All’Infinito”, evidentemente figurando e sognando, un rapporto erotico in cui i suoi biechi istinti abbiano a saziarsi d’orgasmo giorni e giorni senza limite nè fine.

Potrei continuare, ma il disgusto mi sovrasta. Credo comunque che gli elementi da me addotti siano bastevoli, per questo chiedo il sequestro immediato in tutto il territorio italiano, dell’opera in questione nonché l’arresto dei suddetti Carducci Giosuè, Pascoli Giovanni, Foscolo Ugo, Leopardi Giacomo, nonché dell’editore, del curatore; nonché di scoprire dovi si trovi il covo di questa sordida attività, perché informatori informati mi hanno detto che tutti costoro scrivono in Metrica, e non ho trovato sulla carta d’Italia alcuna traccia di tale regione.

Con fiducia

Il suo Bartolomei

Il socialismo e l’ uomo a Cuba – E. Guevara

La nuova società in formazione deve lottare molto duramente con il passato. Ciò si avverte non solo nella coscienza individuale, su cui pesano i residui di un’educazione orientata sistematicamente all’isolamento dell’individuo, ma anche per il carattere stesso di questo periodo di transizione, con il permanere di rapporti di mercato. La merce è la cellula economica della società capitalistica; finché esisterà, i suoi effetti si ripercuoteranno sull’organizzazione della produzione e conseguentemente sulla coscienza.
Nello schema di Marx il periodo di transizione era concepito come il risultato della trasformazione esplosiva del sistema capitalistico soffocato dalle proprie contraddizioni; successivamente, si è visto nella realtà come dall’albero imperialista potevano staccarsi alcuni paesi che rappresentavano i rami deboli; un fenomeno previsto da Lenin. In essi, il capitalismo si è sviluppato abbastanza da far sentire i propri effetti, in un modo o nell’altro, sul popolo; ma non sono le sue stesse contraddizioni che, esaurite tutte le possibilità, fanno saltare il sistema. La lotta di liberazione contro un oppressore straniero, la miseria provocata da avvenimenti esterni come la guerra — le cui conseguenze vengono fatte ricadere dalle classi privilegiate sugli sfruttati — i movimenti di liberazione destinati a rovesciare i regimi neocoloniali: questi sono i fattori scatenanti più comuni. L’azione cosciente fa il resto.
In questi paesi non si è ancora prodotta un’educazione completa nei confronti del lavoro sociale e la ricchezza è lungi dall’essere alla portata delle masse attraverso un semplice processo di appropriazione. Il sottosviluppo da un lato e l’abituale fuga di capitali verso i paesi «civilizzati» dall’altro, rendono impossibile un cambiamento rapido e indolore. Resta un lungo tratto da percorrere per la costruzione della base economica e la tentazione di seguire le strade battute dell’interesse materiale, come leva propulsiva per uno sviluppo accelerato, è notevole.
Si corre il pericolo che gli alberi impediscano di vedere il bosco. Rincorrendo l’illusione di realizzare il socialismo con l’aiuto delle armi spuntate che ci lascia in eredità il capitalismo (la merce come cellula economica, il profitto, l’interesse materiale individuale come leva, ecc.), si può imboccare un vicolo senza uscita. E vi si arriva dopo aver percorso un lungo tratto in cui le strade si incrociano più volte e dove è difficile capire il punto in cui si è sbagliato strada. Frattanto, la base economica adottata ha compiuto il suo lavoro di scavo sullo sviluppo della coscienza. Per costruire il comunismo, contemporaneamente alla base materiale, bisogna creare l’uomo nuovo.
Di qui la grande importanza di scegliere correttamente lo strumento per mobilitare le masse. Questo deve essere fondamentalmente di natura morale, pur senza trascurare un corretto utilizzo degli incentivi materiali, soprattutto di natura sociale.
Come ho già detto, nei momenti di grave pericolo è facile potenziare gli incentivi morali; per mantenere la loro efficacia è necessario sviluppare una coscienza in cui i valori acquistino nuove caratteristiche. La società nel suo insieme deve trasformarsi in una gigantesca scuola.
Le grandi linee di questo fenomeno sono simili al processo di formazione della coscienza capitalistica nella sua prima fase. Il capitalismo ricorre alla forza, ma educa anche la gente all’interno del sistema. La propaganda diretta viene realizzata da coloro che sono incaricati di spiegare l’ineluttabilità di un regime di classe, sia esso d’origine divina o imposto dalla natura come entità meccanica. Ciò placa le masse che si vedono oppresse da un male contro il quale non è possibile lottare. In seguito subentra la speranza e in questo si differenzia dai precedenti regimi di casta che non offrivano via d’uscita.
Per alcuni, tuttavia, continuerà a vigere la formula di casta: il premio a chi obbedisce consiste nell’arrivo — dopo la morte — in altri mondi meravigliosi dove i buoni vengono premiati, secondo quanto afferma la vecchia tradizione. Per altri, c’è la novità: la distinzione in classi è fatale, ma gli individui possono uscire da quella cui appartengono mediante il lavoro, l’iniziativa, ecc. Questo processo e quello di autoeducazione al successo devono essere profondamente ipocriti; sono la dimostrazione interessata del fatto che una menzogna è verità.
Nel nostro caso l’educazione diretta acquista un’importanza molto maggiore. La spiegazione è convincente perché è vera; non ha bisogno di sotterfugi. Si esercita attraverso l’apparato educativo dello Stato in funzione della cultura generale, tecnica e ideologica, attraverso organismi quali il ministero dell’educazione e l’apparato di propaganda del partito. L’educazione penetra tra le masse e il nuovo atteggiamento proposto tende a trasformarsi in abitudine; le masse lo vanno facendo proprio ed esercitano una pressione su coloro che non si sono ancora educati. Questa è la forma indiretta di educazione delle masse, potente tanto quanto l’altra.
Il processo, tuttavia, è cosciente: l’individuo riceve continuamente l’impatto del nuovo potere sociale e si rende conto di non essersi ancora completamente adeguato ad esso. Sotto la pressione prodotta dall’educazione indiretta, cerca di adattarsi a una situazione che ritiene giusta ed alla quale la sua mancanza di sviluppo gli ha impedito di adeguarsi finora. Si autoeduca.
In questa fase di costruzione del socialismo possiamo vedere l’uomo nuovo che sta nascendo. La sua immagine non è ancora definita; né potrebbe esserlo, giacché il processo marcia parallelo allo sviluppo di nuove forme economiche. Tralasciando coloro la cui mancata educazione li spinge verso un cammino solitario, verso l’autosoddisfacimento delle proprie ambizioni, ci sono altri che, all’interno di questo nuovo quadro di avanzamento collettivo, tendono a camminare isolati dalla massa che accompagnano. L’importante è che gli uomini vanno acquistando ogni giorno di più coscienza della necessità della propria integrazione nella società e, allo stesso tempo, della propria importanza come motori di essa.
Ormai non marciano più soli, per sentieri sperduti, verso brame lontane. Seguono la loro avanguardia, costituita dal partito, dagli operai più avanzati che camminano legati alle masse e in stretto collegamento con loro. Le avanguardie hanno lo sguardo rivolto al futuro e alla sua ricompensa, però questa non appare come qualcosa di individuale; il premio è la nuova società in cui gli uomini avranno caratteristiche diverse: è la società dell’uomo comunista.
La strada è lunga e piena di difficoltà. A volte, per avere smarrito la strada si deve retrocedere; altre volte, camminando troppo in fretta, ci separiamo dalle masse; in qualche caso, per troppa lentezza, sentiamo vicino il fiato di coloro che ci pestano i talloni. Nella nostra ambizione di rivoluzionari, cerchiamo di camminare il più velocemente possibile, aprendo nuove strade, ma sappiamo che dobbiamo trarre nutrimento dalle masse e che queste potranno avanzare più rapidamente solo se le’ stimoliamo con il nostro esempio.

Il metodo anarchico di Edgar Morin

Da il pensiero acentrico

La nozione di gerarchia è polarizzata in due significati diversi a seconda che siano di ispirazione sistemica oppure etologica. Il significato sistemico considera la gerarchia anzitutto in termini di livelli/gradi di integrazione. Il significato etologico considera la gerarchia anzitutto in termini di dominio/subordinazione. Tenteremo di evitare due semplificazioni:
a) non ridurre la gerarchia a un puro e semplice fenomeno di dominio/autorità;
b) non ridurre la gerarchia a un puro e semplice fenomeno di integrazione a livelli multipli.
Quello che voglio dimostrare è che l’idea di gerarchia, per tutto ciò che riguarda l’organizzazione vivente, comporta entrambi i caratteri – da una parte il dominio, dall’altra l’integrazione/inglobamento – e che le organizzazioni viventi oscillano variamente fra queste due polarizzazioni. Così, la gerarchia che si stabilisce fra individui nelle società di uccelli o di mammiferi è un rapporto di dominio/subordinazione che risulta da competizione/concorrenza/antagonismo per il cibo, il sesso, il territorio, il potere stesso. La gerarchia appare qui puramente e semplicemente come un «ordine di dominio». La gerarchia che si istituisce in bio-classi – maschi adulti/donne/giovani – è parimenti una gerarchia di dominio.
La semplice autorità verticale (dominio/subordinazione) fornisce un concetto molto povero di gerarchia, soprattutto quando concerne l’autorità di individui dominanti su altri individui dominati. Tuttavia, questa gerarchia di dominio, diventando uno degli elementi che costituiscono l’ordine sociale, gioca un ruolo di integrazione disponendo gli individui in questo ordine, così come conferisce ai dominanti (individui o gruppi) la responsabilità di proteggere, guidare e nutrire il gruppo nel suo insieme.
Alla gerarchia fondata principalmente sul dominio (mammiferi, uccelli) si oppone una gerarchia fondata essenzialmente sull’integrazione, come nelle società di insetti. La gerarchia dei termitai, degli alveari, dei formicai è di natura non piramidale: si tratta di una gerarchia per differenziazione di ruoli e funzioni secondo un sistema di caste, dove il dominio però non dispone in modo verticale i vari livelli, bensì ingloba le parti. Così, di nuovo, vediamo che la nozione di gerarchia non può essere ridotta a un semplice schema per livelli, né a un semplice schema dominio/subordinazione. Non è una nozione univoca. L’idea di gerarchia non può dunque essere recepita come già data, ma deve essere esplorata.

L’integrazione

L’idea sistemica di gerarchia si definisce in termini di inglobamento/stratificazione/integrazione. La gerarchia presuppone almeno due livelli di unità, quello delle parti e quello del tutto. Ma la gerarchia può comportare molteplici livelli di organizzazione allo stesso tempo, stratificanti e inglobanti: così per un organismo vivente le molecole sono integrate/inglobate nei piccoli organi, che sono integrati/inglobati nelle cellule, le quali sono integrate/inglobate in tessuti o organi, che sono integrati/inglobati nell’organismo. In questo sistema di gradini/incastri, i livelli più alti, presi come sono dal perseguire i fini del tutto, dispongono di un controllo minimo sulle attività dei livelli inferiori.
Nel senso in cui integra organizzazioni di scale differenti, l’idea di gerarchia rinvia all’integrone di François Jacob: ogni unità «formatasi per integrazione di unità subordinate, può essere indicata con il termine generale di integrone. Ogni integrone è formato da integroni di livello inferiore e partecipa alla costruzione di un integrone di livello superiore». Si ritrova la stessa idea nella nozione di org proposta da R. W. Gerard e nella nozione di holon proposta da Arthur Koestler. Così la gerarchia è costitutiva delle organizzazioni a livelli multipli di integrazione che permettono di edificare un’architettura della complessità. Questa costruzione per livelli di integrazione si ritrova nelle società storiche, dalla nazione alla provincia, dalla provincia al comune, dal comune ai focolari. Essa costituisce l’organizzazione a doppia articolazione del linguaggio, e l’organizzazione del pensiero stesso si opera per integrazioni/incastri.
Questa architettura integrativa permette, a ciascun livello, la costituzione di un gradino stabile che, proprio per questo, diventa la base per la costituzione di un livello superiore, il quale a sua volta diventa la base per un nuovo successivo livello. Non basta concepire l’integrazione gerarchica in termini di sistemi/sottosistemi/sotto-sottosistemi e così via. Le integrazioni gerarchiche, al di là del livello cellulare, sono costituite non soltanto a partire da sottosistemi, ma a partire da e con esseri viventi. Le organizzazioni gerarchiche che si sviluppano negli organismi pluricellulari, nelle società, negli ecosistemi, sono organizzazioni i cui oggetti integrati sono di fatto individui-soggetti.
A partire da qui possiamo cominciare a concepire l’ambiguità e la complessità della nozione di gerarchia. In un senso, la gerarchia è un aspetto indissociabile dell’integrazione a livelli multipli e, come vedremo, permette la produzione di emergenze sempre più ricche da livello a livello. In un altro senso, essa è non solo una struttura di asservimento di sottosistemi, ma una struttura di assoggettamento di esseri-soggetti viventi integrati. Da una parte le emergenze, dall’altra le inibizioni e le repressioni. Da una parte lo sviluppo della complessità, dall’altra lo sviluppo del dominio e dell’assoggettamento.

L’architettura delle emergenze

La gerarchia è dunque al contempo architettura di assoggettamento e architettura di emergenze. Può essere considerata come movimento ascendente verso qualità sempre più ricche, fra cui la libertà, e come una costrizione sempre più pesante che scende dall’alto verso il basso.
Nel significato ascendente/architettonico, le qualità globali emergenti dalle organizzazioni poste in «basso» diventano le qualità elementari di base per l’edificazione delle unità complesse di livello superiore, le quali produrranno nuove emergenze che a loro volta diventeranno «elementi» per un nuovo livello superiore, e così via. In tal modo, le proprietà globali dell’atomo diventano elementi di base per la molecola; le proprietà emergenti della molecola diventano proprietà elementari in seno alla cellula. Qui si ritrova l’idea koestleriana dell’holon, che è un tutto in rapporto ai suoi elementi e che diventa parte di un holon più ampio. Ma per capire veramente l’architettura della complessità bisogna aggiungere l’idea capitale di emergenza, che sola permette di concepire i salti qualitativi da un livello all’altro.
In questo senso, la gerarchia diventa inscindibile da una produzione e da una promozione diffuse a ogni gradino dell’organizzazione come a livello del tutto, da qualità e da emergenze che permettono metastrutture e metaorganizzazioni. L’organizzazione gerarchizzata non è soltanto la subordinazione del basso rispetto all’alto, del non specializzato rispetto allo specializzato, dell’esecuzione rispetto all’ordine, ma è anche uno sviluppo e un’espansione di emergenze dal basso verso l’alto, di livello in livello. Essa significa sfruttamento, non soltanto nel senso alienante del termine, ma anche nel suo senso produttivo. Non è soltanto la piramide che schiaccia, ma è anche l’albero che si innalza. Non è solo l’assoggettamento degli esseri, ma è anche la produzione di esseri e di soggettività sempre più ricche, come si può ben vedere negli organismi pluricellulari.

L’assoggettamento gerarchico

L’idea integrativa/inglobante della gerarchia comporta quanto meno il controllo dell’inglobante sull’inglobato, se non altro il controllo del tutto, in quanto tutto, sulle parti e, in una gerarchia a molteplici livelli, il controllo scalare del livello superiore su quello immediatamente inferiore. In tal senso la gerarchia costituisce una struttura di dominio/subordinazione. Il che si aggrava quando il vertice della gerarchia costituisce un centro di comando che dispone di competenze generali e del potere decisionale per l’insieme, e quando alla base non c’è che il lavoro specializzato di esecuzione. In questo contesto, i termini superiore e inferiore hanno non soltanto un significato topologico, ma anche un senso di dominio e di subordinazione.
Effettivamente, una struttura di dominio/subordinazione è l’altra faccia dell’architettura delle emergenze che caratterizza l’organizzazione degli organismi e delle società. In questo senso, la gerarchia costituisce una struttura di assoggettamento in cui gli esseri cellulari sono assoggettati agli individui pluricellulari, i quali sono a loro volta assoggettati alle società di cui fanno parte. Gli esseri assoggettati rimangono soggetti, ma operano nell’ignoranza (e per gli umani nell’inconsapevolezza) per perseguire i fini dei soggetti che li assoggettano. Da questo punto di vista, anche là dove c’è un’architettura delle emergenze l’organizzazione gerarchica porta in sé una certa alienazione dell’assoggettato (che opera per altri operando per sé) e un virtuale asservimento e sfruttamento. È in effetti a partire dal controllo e dal dominio – del basso da parte dell’alto, della parte a opera del tutto, del micro da parte del macro, degli esecutori specializzati a opera dei decisori non specializzati, della manovalanza da parte della competenza, degli informati da parte degli informatori – che si stabiliscono le relazioni intra-organizzative. E, di fatto, le forme globali «alte» (dell’organismo, della società) si mantengono e perdurano nel e per mezzo del turnover delle forme «basse», vale a dire vivono grazie alle morti/rinascite ininterrotte degli individui cellulari, vero flusso rigeneratore che mantiene la permanenza, la stabilità, la sopravvivenza dell’individuo assoggettatore.
La gerarchia integrativa presenta due facce opposte, due significati che sono al contempo antagonisti, concorrenti e complementari. D’altronde, la gerarchia costituisce un concetto ambiguo e ambivalente che oscilla fra due polarizzazioni. Ed è in questa ambiguità, in questa ambivalenza, che si situa la problematica davvero originale dell’organizzazione vivente. Sia ben chiaro che questa problematica fondamentale si pone in termini del tutto diversi nell’organizzazione della cellula (che comporta soltanto molecole e non esseri-soggetto), nell’organizzazione dell’organismo, nell’organizzazione delle società di insetti, nell’organizzazione delle società di mammiferi, e infine nell’organizzazione delle nostre società umane.

L’anello gerarchico

Nel fenomeno gerarchico ci sono due movimenti di senso opposto: uno dal basso verso l’alto (produzione di emergenze) e uno dall’alto verso il basso (controllo). Dobbiamo considerare i due movimenti come i due momenti di uno stesso anello: la produzione di emergenze è un aspetto del movimento autoproduttore attraverso il quale il tutto si costituisce e si ricostituisce senza tregua a partire dalle interazioni di base; il movimento discendente del controllo gerarchico è un aspetto della retroazione del tutto sulle interazioni di base che producono la sua esistenza e delle quali il tutto assicura l’esistenza.
L’autoproduzione permanente di cellule costitutive dell’organismo e detentrici del suo patrimonio genetico costituisce l’autoproduzione permanente di questo organismo. In tal senso, le forme superiori di vita sono totalmente dipendenti dalle forme inferiori e devono necessariamente mantenere queste forme inferiori per sopravvivere.
E così, pur essendoci sfruttamento del basso da parte dell’alto, del micro da parte del macro, pur essendoci antagonismo fra i due ordini di soggettività, quello della cellula e quello dell’individuo pluricellulare, c’è al contempo una doppia dipendenza esistenziale, una doppia autonomizzazione reciproca fra il micro-soggetto del basso e il macro-soggetto dell’alto; e c’è una coincidenza profonda fra i due voler-essere, i due voler-vivere. La gerarchia non fa che apportare differenze di livello, provocando crepe insondabili nell’unità del tutto, e in tal modo contribuisce, a modo suo, ad assicurare l’unità dell’Uno-Tutto. Nel nostro organismo, la testa è un’entità gerarchica che domina distintamente il resto del corpo che da essa dipende, con il quale però concorre a comporre l’unità, la totalità e l’identità dell’organismo.
La gerarchia sviluppa in seno all’organizzazione vivente i due caratteri sistemici fondamentali: da un lato, la costrizione del tutto che inibisce le qualità proprie delle parti; dall’altro, la formazione e la stabilizzazione delle emergenze, che compaiono non solo a livello del tutto, ma anche a livello delle parti sottomesse.

L’insufficienza gerarchica

L’organizzazione ricorsiva relativizza la nozione di gerarchia, poiché la gerarchia dipende, nella sua stessa esistenza, da ciò che da essa dipende. Ora bisogna spingersi ancora più in là e riconoscere che in qualsiasi organizzazione vivente l’organizzazione gerarchica ha bisogno di organizzazione non gerarchica. In effetti, l’assoggettamento, l’asservimento, lo sfruttamento tendono a perpetuare un’organizzazione rigida e povera attraverso l’inibizione delle qualità, la perdita di autonomia degli esseri subordinati e specializzati, la sottoutilizzazione delle capacità, la quasi meccanizzazione delle operazioni. La gerarchia diventa operativamente ricca (complessa) soltanto se c’è elasticità e gioco fra i livelli, autonomia degli assoggettati, possibilità di decisione alla base. Di fatto, gli organismi, le società, gli ecosistemi non possono autoprodursi e riprodursi che a partire da interazioni di base relativamente autonome fra gli individui-soggetti che le costituiscono. Andando un po’ più a fondo, questi organismi, società, ecosistemi esigono la presenza di gerarchie concorrenti o, ancora meglio, di forme antagoniste alla stessa gerarchia. Insomma, bisogna che nell’organizzazione gerarchica ci sia una componente anarchica.

Bruno Munari

Il metodo progettuale non è altro che una serie di operazioni necessarie, disposte in un ordine logico dettato dall’esperienza. Il suo scopo è quello di giungere al massimo risultato col minimo sforzo.
Progettare un risotto verde o una pentola per cuocere lo stesso riso, richiede l’uso di un metodo che aiuterà a risolvere il problema. L’importante è, nei due casi accennati, che le operazioni necessarie siano fatte seguendo l’ordine dettato dall’esperienza. Non si può, nel caso del risotto, mettere il riso nella pentola senza aver messo prima l’acqua; oppure rosolare prosciutto e cipolla dopo aver cotto il riso, oppure cuocere riso, cipolla e spinaci tutto assieme.
Il progetto del riso verde in questo caso fallirà e bisognerà buttar via tutto.
Anche nel campo del design non è bene progettare senza metodo, pensare in modo artistico cercando subito un’idea senza prima aver fatto una ricerca per documentarsi su ciò che è già stato fatto di simile a quello che si deve progettare; senza sapere con quali materiali costruire la cosa, senza precisarne bene la esatta funzione.
Ci sono persone che di fronte al fatto di dover osservare delle regole per fare un progetto, si sentono bloccate nella loro creatività. Dove va a finire la personalità? si domandano. Stiamo diventando tutti matti? tutti dei robot? tutti livellati, tutti uguali?
E ricominciano da zero a rifarsi l’esperienza necessaria per progettare bene. Faranno molti sforzi per capire che certe cose vanno fatte prima e certe altre dopo. Sprecheranno molto tempo per correggere quegli errori che non avrebbero fatto se avessero seguito un metodo progettuale già sperimentato.
Creatività non vuol dire improvvisazione senza metodo: in questo modo si fa solo della confusione e si illudono i giovani a sentirsi artisti liberi e indipendenti.
La serie di operazioni del metodo progettuale è fatta di valori oggettivi che diventano strumenti operativi nelle mani di progettisti creativi.
Come si riconoscono i valori oggettivi? Sono valori riconosciuti da tutti come tali. Per esempio se io affermo che mescolando il color giallo limone con il blu turchese, si ottiene un verde, sia che si usino colori a tempera, a olio o acrilici, oppure pennarelli, e pastelli, io affermo un valore oggettivo.
Non si può dire: per me il verde si ottiene mescolando il rosso col marrone. In questo caso vien ·fuori un rosso sporco, ma in certi casi, un ostinato dirà che per lui quello è un verde, ma lo sarà solo per lui e non per. tutti gli altri.

Il metodo progettuale per il designer non è qualcosa di assoluto e di definitivo; è qualcosa di modificabile se si trovano altri valori oggettivi che migliorino il processo. E questo fatto è legato alla creatività del progettista che, nell’applicare il metodo, può scoprire qualcosa per migliorarlo. Quindi le regole del metodo non bloccano la personalità del progettista ma, anzi, lo stimolano a scoprire qualcosa che, eventualmente, potrà essere utile anche agli altri. Purtroppo un modo di progettare molto diffuso nelle nostre scuole è quello di incitare gli allievi a trovare idee nuove, come se dovessimo inventare tutto daccapo ogni giorno. In questo modo non si aiutano i giovani a una disciplina professionale ma li si spinge verso direzioni sbagliate, per cui quando avranno finito la scuola si troveranno in grandi difficoltà nel lavoro che avranno scelto.
È bene perciò fare subito una distinzione tra il progettista professionista, che ha un metodo progettuale, grazie al quale il suo lavoro viene svolto con precisione e sicurezza, senza perdite di tempo; e il progettista romantico che ha un’idea « geniale » e che cerca di costringere la tecnica a realizzare qualcosa di estremamente difficoltoso, costoso e poco pratico ma bello.
Lasciamo quindi da parte questo secondo tipo di progettista che, oltre tutto, non accetta consigli e aiuti da nessuno! e occupiamoci del metodo professionale di progettazione del designer.

Idee e Classi Dominanti K Marx [L’ideologia tedesca, 1845-46]

Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè la classe che è la potenza materiale dominante è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché a essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio. Gli individui che compongono la classe dominante posseggono fra l’altro anche la coscienza, e quindi pensano; in quanto dominano come classe e determinano l’intero ambito di un’epoca storica, è evidente che essi lo fanno in tutta la loro estensione, e quindi fra l’altro dominano anche come pensanti, come produttori di idee che regolano la produzione e la distribuzione delle idee del loro tempo; è dunque evidente che le loro idee sono le idee dominanti dell’epoca. Per esempio: in un periodo e in un paese in cui potere monarchico, aristocrazia e borghesia lottano per il potere, il quale quindi è diviso, appare come idea dominante la dottrina della divisione dei poteri, dottrina che allora viene enunciata come “legge eterna”.
La divisione del lavoro, che abbiamo già visto come una delle forze principali della storia finora trascorsa, si manifesta anche nella classe dominante come divisione del lavoro intellettuale e manuale, cosicché all’interno di questa classe una parte si presenta costituita dai pensatori della classe (i suoi ideologi attivi, concettivi, i quali dell’elaborazione dell’illusione di questa classe su se stessa fanno la loro principale fonte di alimento); mentre gli altri nei confronti di queste idee e di queste illusioni hanno un atteggiamento più passivo e più ricettivo, giacché in realtà sono i membri attivi di questa classe e hanno meno tempo di farsi delle idee e delle illusioni su se stessi. All’interno di questa classe questa scissione può addirittura svilupparsi fino a creare fra le due parti una certa opposizione e una certa ostilità, che tuttavia cade da sé quando sopraggiunge una collisione pratica che metta in pericolo la classe stessa: allora si dilegua anche la parvenza che le idee dominanti non siano le idee della classe dominante e abbiano un potere distinto dal potere di questa classe. L’esistenza di idee rivoluzionarie in una determinata epoca presuppone già l’esistenza di una classe rivoluzionaria sui cui presupposti abbiamo già detto quanto occorre.
Se ora nel considerare il corso della storia si svincolano le idee della classe dominante dalla classe dominante e le si rendono autonome, se ci si limita a dire che in un’epoca hanno dominato queste o quelle idee, senza preoccuparsi delle condizioni della produzione e dei produttori di queste idee, e se quindi si ignorano gli individui e le situazioni del mondo che stanno alla base di queste idee, allora si potrà dire per esempio che al tempo in cui dominava l’aristocrazia dominavano i concetti di onore, di fedeltà ecc., e che durante il dominio della borghesia dominavano i concetti di libertà, di eguaglianza ecc. Queste sono, in complesso, le immaginazioni della stessa classe dominante. Questa concezione della storia che è comune a tutti gli storici, particolarmente a partire dal XVIII secolo, deve urtare necessariamente contro il fenomeno che dominano idee sempre più astratte, cioè idee che assumono sempre più la forma dell’universalità.
Infatti ogni classe che prenda il posto di un’altra che ha dominato prima è costretta, non fosse che per raggiungere il suo scopo, a rappresentare il suo interesse come interesse comune di tutti i membri della società, ossia, per esprimerci in forma idealistica, a dare alle proprie idee la forma dell’universalità, a rappresentarle come le sole razionali e universalmente valide. Già per il fatto che si contrappone a una classe, la classe rivoluzionaria si presenta sin dall’inizio non come classe ma come rappresentante dell’intera società, come l’intera massa della società di contro all’unica classe dominante. Ciò le è possibile perché in realtà all’inizio il suo interesse è ancora più legato all’interesse comune di tutte le altre classi non dominanti, e sotto la pressione dei rapporti fino ad allora esistenti non si è ancora potuto sviluppare come interesse particolare di una classe particolare. La sua vittoria giova perciò anche a molti individui delle altre classi che non giungono al dominio, ma solo in quanto pone questi individui in condizione di ascendere nella classe dominante. Quando la borghesia francese rovesciò il dominio dell’aristocrazia, con ciò rese possibile a molti proletari di innalzarsi al di sopra del proletariato, ma solo in quanto essi diventarono borghesi. Quindi ogni nuova classe non fa che porre il suo dominio su una base più ampia della precedente, per la qual cosa anche l’opposizione delle classi non dominanti contro quella ora dominante si sviluppa successivamente con tanta maggiore asprezza e profondità. Queste due circostanze fanno sì che la lotta da condurre contro questa nuova classe dominante tenda a sua volta a una negazione della situazione sociale esistente più decisa e più radicale di quanto fosse possibile a tutte le classi che precedentemente avevano aspirato al dominio.
Tutta questa parvenza, che il dominio di una determinata classe altro non sia che il dominio di certe idee, cessa naturalmente da sé non appena il dominio di classe in generale cessa di essere la forma dell’ordinamento sociale, non appena quindi non è più necessario rappresentare un interesse particolare come universale o “l’universale” come dominante.